Pubblicato da: giuliolaforenza | aprile 1, 2016

Una trivella è per sempre.

Il 17 aprile si voterà per scegliere se rinnovare o meno le concessioni per l’estrazione di gas/petrolio entro le 12 miglia dalle coste nazionali. In caso di vittoria del SI, 92 piattaforme di estrazione in mare attualmente in funzione, a scadenza delle relative concessioni, saranno dismesse. Se vince il NO potranno proseguire la loro attività estrattiva fino ad esaurimento del giacimento. Si tratta di un referendum abrogativo, uno dei pochi strumenti in mano al cittadtrivino per scegliere in merito ad un certo tema, ovvero uno strumento di espressione democratica. Ma prima ancora si tratta di un’occasione preziosa per tornare a parlare di ambiente, di sviluppo e delle problematiche ad esso connesso, di politica energetica nazionale. In queste ore le diverse posizioni si stanno confrontando apertamente sui media, sui social network, ma anche nella vita reale capita spesso di trovarsi coinvolti in una discussione in merito. Già questo è un ottimo segnale.

Il secondo segnale positivo è dato dal fatto che il referendum è riuscito anche nel miracolo di far convergere sulle tematiche ambientali e le strategie per perseguire obiettivi comuni in modo quantomeno coordinato, i principali partiti e associazioni ambientaliste, che da tempo non riuscivano a sedersi attorno ad un tavolo che fosse in qualche modo costruttivo.

Voglio chiarire subito a chi legge che riguardo all’attuale referendum e alla sua reale efficacia nutro più di un dubbio, che proverò ad analizzare/dipanare nelle righe che seguono. Indipendentemente dall’idea che ci si è fatti in merito, è però importante andare a votare, esercitare il proprio diritto. E ancora più importante è andarci informati, con un’idea chiara su cosa si vota e sul perché si va a mettere una crocetta sul SI piuttosto che sul NO. La linea dell’astensionismo toglie credibilità all’importante strumento democratico del Referendum, uccide sul nascere le discussioni costruttive sul tema, ed è pertanto l’unica posizione a priori sbagliata. Molto meglio un voto consapevole.

Il giudizio di merito sul voto,  riguardo al tema specifico, non può prescindere da una breve riflessione sulle politiche ambientali nazionali e da una più generica riflessione sull’ecologia.

La necessità di un cambiamento radicale nella nostra interazione con la natura è una questione che fino a qualche decennio fa era trattata solo da pochi che vedevano lontano, come Alexander Langer, che combatteva la battaglia per la Conversione ecologica dell’economia più di 40 anni fa. Di clima e ambiente, degli effetti dell’uomo-parassita sull’ambiente si è parlato molto, ma negli anni la questione non è mai stata affrontata con la dovuta serietà e in modo organizzato da parte degli Stati. Si è preferito non imporre vincoli ambientali stringenti né un sistema che portasse a garantirne il rispetto, a causa del prevalere degli interessi dei singoli Stati su quello globale, e del concomitante avvento dell’era della Globalizzazione, negli anni 90, basata sul principio del libero mercato, del libero scambio, su quello della autoregolamentazione dei mercati e della conseguente deregolamentazione e riduzione degli interventi nazionali nel mercato comune. In altre parole: il mondo diventa sempre “più piccolo”, gli spazi sempre più accessibili ad ognuno di noi, ma nella guerra per il potere economico, giocata da pochi Stati sulle spalle di tanti, ognuno si concentra più su quel che riesce a produrre (quanto riesce a produrre in più rispetto all’anno precedente e rispetto agli altri) piuttosto che su ciò che questo processo folle comporta, in primis la polarizzazione delle ricchezze nelle mani di pochi e la devastazione del ambiente.

Anche volendo, in questo contesto gli Stati si trovano spesso con le mani legate, a causa degli accordi commerciali internazionali, che ne limitano l’azione, ricattandoli con penali o multe in caso di mancato rispetto degli stessi, ad esempio se uno Stato decide di operare politiche “protezioniste” per favorire  le economie locali. La possibilità di essere uniti nella battaglia per la tutela del Bene Comune -l’ambiente – è stata azzerata questa continua competizione. I tanti campanelli d’allarme delle altrettante conferenze sui cambiamenti climatici (Rio De Janeiro-Summit della Terra- 1992, Berlino-COP1 1995, Ginevra-COP2 1996, Kyoto-COP3 1997, L’Aia-COP6 2000, Bonn-COP6-Bis 2001, Marrakesh-COP7 2001, Milano-COP9 2003, Montreal-COP11 2005, Nairobi-COP12 2006, Bali-COP13 2007, Poznan-COP14 2008, Copenaghen-COP15 2009, Cancùn-COP16 2010, Durban-COP17 2011, Doha-COP18 2012, Varsavia-COP19 2013, Lima-COP20 2014 e Parigi-COP21 2015) non sono stati ascoltati per troppo tempo.

Negli ultimi anni sembra che qualcosa si stia muovendo. L’opera di sensibilizzazione degli esperti in materia riguardo i dati preoccupanti sulle evoluzioni del clima, sulla rapidità del surriscaldamento globale (Global warming) conseguente all’inspessimento dello strato di CO2 nella nostra atmosfera, e le conseguenze drammatiche che in molte aree del mondo stiamo già vivendo, come le catastrofi naturali di sempre maggiore intensità (alluvioni, siccità, ondate di caldo e gelo record) stanno portando alla convergenza verso un approccio comune per la riduzione delle emissioni. Riguardo la necessità di una politica energetica più rigorosa e attenta alla questione ambientale occorre anche ricordare le parole del presidente USA Barack Obama alla COP21 di Parigi, nonché l’enciclica di Papa Francesco “Laudata sii”, totalmente incentrata sul tema dell’ecologia.

Quando si parla di sfide climatiche la questione deve essere affrontata globalmente. Non ci sono altre strade. E ognuno deve fare la sua parte. L’Unione Europea nel 2010 si è posta un piano strategico decennale, chiamato Europa 2020, basato su una vision di cover-europe-2020-strategy-en-extra_largecrescita intelligente, sostenibile e solidale. Per fronteggiare la sfida dei cambiamenti climatici e della sostenibilità energetica ha posto l’obiettivo noto come 20-20-20, ovvero della riduzione delle emissioni di gas serra del 20% rispetto al 1990, 20% del fabbisogno di energia ricavato da fonti rinnovabili (17% per l’Italia, obiettivo già raggiunto), aumento del 20% dell’efficienza energetica (obiettivo ricordato come 20-20-20). Recentemente la Commissione Europea ha proposto gli obiettivi di riduzione delle emissioni atmosferiche da raggiungere entro il 2030. Tali obiettivi prevedono la riduzione delle emissioni totali del 40% rispetto al 1990, l’aumento dell’energia da fonti rinnovabili al 27% del consumo finale e il risparmio del 30% di energia attraverso l’aumento dell’efficienza energetica.

In Italia il Governo Renzi ha annunciato a breve un “Green Act”, ovvero un piano per lo sviluppo sostenibile che per adesso rimane solamente nelle intenzioni, contraddette nei fatti dall’approccio del Decreto SbloccaItalia.

Sulla necessità di una politica basata sempre più sulle rinnovabili il fronte di consenso è sempre più ampio, e, come vedremo, non è corretto sostenere che non si stia procedendo in quella direzione. Un certo ecologismo complottista sostiene che non si faccia abbastanza per colpa delle lobby del petrolio, che con i loro interessi economici continuano a costituire la principale potenza economica mondiale, che chiaramente condiziona più o meno direttamente la politica. Io credo che da una parte sia anche effettivamente così. Dall’altra la questione, per essere compresa bene, deve essere approfondita (e troppo spesso è affrontata in termini meramente ideologici ed astrattamente, senza alcun dato in mano). Quando poi è necessario inserirla nel mondo reale, ovvero in un quadro ben più complesso.

Ma torniamo al tema del referendum. Partendo dalla constatazione che il Riscaldamento Globale e i conseguenti cambiamenti climatici non dipendono solo dalla combustione di eolico-1combustibili fossili, ma anche (molto più di quanto si creda) dalla deforestazione, dall’allevamento intensivo, dalla combustione di rifiuti e dalla produzione industriale, partire dal ridurre le emissioni agevolando ad esempio la produzione di energia da fonti rinnovabili, scoraggiando l’estrazione e la combustione delle fossili, è certamente un buon inizio. E infatti è esattamente quello che, come vedremo, il nostro Paese sta provando a fare (spesso tra le proteste di quei signori che sono favorevoli all’eolico e al solare, ma solo a casa degli altri, per l’impatto visivo degli impianti in questione).

Ma, molto banalmente, questo non è l’oggetto del Referendum. Come non si tratta di un Referendum contro le trivelle -almeno non lo è direttamente-, sebbene “NoTriv” sia diventato il Leitmotiv dell’attuale campagna referendaria.

Il quesito si limita ad esprimere un giudizio specifico sul rinnovo delle concessioni vigenti entro le 12 miglia dalla costa. E in nessun modo una vittoria del Si può condizionare una strategia energetica nazionale. Quello che molti si aspettano dalla vittoria del SI è l’effetto indiretto, il messaggio politico, che però non vincolerebbe certo l’azione di Governo, tantomeno modificherebbe una strategia che già è stata palesata in decreti come lo SbloccaItalia, che non vanno esattamente nella direzione della rivoluzione ecologica.

Inoltre spostare l’attenzione dalla questione tecnica oggettiva, legata al quesito referendario, a quella politica più generale, da un certo punto di vista innalza la discussione a un livello più alto, ovvero al piano strategico, dall’altro però porta all’inevitabile approccio “per slogan”, ovvero ad una degenerazione e banalizzazione di un ambito complesso e che non può essere valutato se non nella sua complessità, con le competenze del caso.

Dall’altra parte, la motivazione occupazionale sollevata dai sostenitori del NO francamente sta poco in piedi, in quanto la dismissione degli impianti sarebbe comunque un processo non immediato, che non si verificherebbe prima dell’effettiva scadenza delle concessioni, ovvero non prima di qualche anno. Pertanto le compagnie avrebbero tutto il tempo di allocare le proprie risorse su altre commesse, magari proprio (why not?) nell’ambito della produzione o impiantistica “green”. Sul fronte del SI non sta in piedi la motivazione che la presenza di piattaforme penalizzerebbe in qualche maniera il turismo. E non si tratta di una valutazione soggettiva, bensì oggettiva, basata sui dati sul turismo delle zone interessate, ad esempio lungo la costa romagnola dove si trovano la maggior parte delle piattaforme.

Concretamente non cambierà niente, se non che le piattaforme che attualmente prelevano petrolio e gas dai giacimenti entro le 12 miglia dovranno, a scadenza della concessione, dismettere i propri impianti. Nulla cambia in merito alle nuove trivellazioni: quelle entro le 12 miglia erano già vietate dalla legge. Per quanto riguarda le altre nulla vieta che, paradossalmente, il giorno dopo il Referendum una Compagnia richieda e ottenga di poter spostare i propri impianti a 13 miglia dalla costa continuando a prelevare combustibile dal medesimo giacimento. In tal caso al danno si aggiungerebbe la beffa delle nuove trivellazioni/esplorazioni, e quindi di una azione decisamente più invasiva rispetto al tollerare gli impianti attualmente in funzione. Del resto lo SbloccaItalia stesso incoraggia questo tipo di attività.

E’ vero, il quesito per cui si voterà è l’unico sopravvissuto dei sei iniziali. Gli altri cinque sono stati considerati inammissibili dalla Corte Costituzionale, ma contrariamente da quanto affermano molti male informati (o in malafede), questo non può essere attribuito ad una sorta di boicottaggio da parte del Governo. In tre casi, infatti, i quesiti sono stati ritenuti inammissibili perché “soddisfatti” dalle modifiche introdotte dalla legge di Stabilità 2016, nei due rimanenti perché per rendere validi i ricorsi delle Regioni in merito alla modifica legislativa apportata dal Governo serviva il voto di almeno 5 consigli regionali, mentre ad esprimersi è stata solo l’assemblea del Veneto. Ricapitolando: sei quesiti proposti inizialmente dalle Regioni, di questi 3 soddisfatti da intervento governativo, e su questi nessuno ha ritenuto di dover far ricorso. Degli altri due si è fatto ricorso, ma commettendo errori grossolani dal punto di vista giuridico. In conclusione, comunque siano andate le cose, rimane un dato di fatto: combattere la battaglia della rivoluzione energetica con questo unico quesito è davvero troppo poco.

In passato proprio il Referendum sul Nucleare ha dimostrato che la volontà popolare può riuscire  in maniera netta ad indirizzare la strategia energetica di una nazione. In tal caso però il tema era molto chiaro e il quesito non affrontava la questione in maniera parziale (ovvero i cittadini non erano chiamati ad esprimersi riguardo alla tutela di solo una parte del territorio), ma riguardava l’intero territorio nazionale.

Altra storia era anche la battaglia contro le anomalie (altresì dette porcate) dello SbloccaItalia che abbiamo sostenuto quest’estate raccogliendo le firme per i due quesiti referendari che andavano a impedire politiche che favorissero l’inversione di tendenza ovvero una nuova era di ispezione e sfruttamento delle risorse del sottosuolo nazionale. E infatti in quel caso la battaglia è stata combattuta in solitario da Possibile e Green Italia. Perché, per molti di quelli che oggi hanno tatuato sul petto il simbolo del SI, in quell’occasione era più importante la strategia interna, la paternità di una proposta, e quindi la salvaguardia del proprio bacino di consenso, che il convergere intorno al tema in discussione.

Parliamo poi di un altro aspetto che mi sta particolarmente a cuore, perché non mi piace essere preso in giro o prendere in giro nessuno, ovvero di sostenibilità. Perché siamo tutti bravi, a parole e senza responsabilità operative, a dire “facciamo a meno di combustibili fossili”, oppure “non si sta facendo abbastanza nella direzione delle rinnovabili”. Ma mettiamoci almeno d’accordo su cosa si intende con “abbastanza”. Analizziamo un po’ di dati e poi esprimiamo un giudizio. Purtroppo non lo fa nessuno. Partiamo dallo stato dell’arte della strategia energetica nazionale, dai dati, e iniziamo a chiederci: di quanta energia abbiamo bisogno per coprire i nostri consumi? quanta energia produciamo? come la produciamo? Quanta è prodotta da fonti non rinnovabili, e quanta da rinnovabili? Cosa accade nel resto d’Europa?

Il fabbisogno energetico nazionale è la somma di tutti i consumi energetici utili a coprire tutte le attività attive sul nostro territorio ovvero non soltanto il fabbisogno di energia elettrica, ma quello di combustibile per i trasporti (automobili, camion, traghetti, aerei ecc..), per alimentare i fornelli nelle nostre abitazioni, per il riscaldamento degli ambienti, per la produzione industriale ecc.. In molti di questi casi l’utilizzo di combustibili fossili è difficilmente sostituibile nell’attuale contesto economico/industriale. Questo vuol dire che, nel quadro attuale, conversione ecologica vuol dire non solo aumentare le infrastrutture per la generazione di energia “green” e progressivamente ridurre le centrali che bruciano combustibile fossile, ma anche parallelamente smettere di utilizzare le automobili non elettriche, chiudere i rubinetti di metano nei nostri appartamenti (e quindi adeguare di conseguenza gli impianti domestici) e via dicendo. E considerando, per dirne una, che le auto elettriche oggi viaggiano intorno al 0,1% del totale e le ibride intorno al 1,5% direi che di strada da fare ce n’è ancora tanta.

Rinunciare alle fonti fossili senza rivedere il nostro modello economico, commerciale e industriale, senza rivedere sensibilmente le nostre stesse abitudini, il nostro stile di vita, è semplicemente impossibile, con buona pace di tutti coloro che dicono che tappezzando il paese di pale eoliche e pannelli fotovoltaici si coprirebbe la totalità del fabbisogno energetico nazionale.

Allora va bene aumentare l’efficienza degli impianti per ridurre i consumi, ma siamo disposti a ridurli modificando il nostro stile di vita, ad esempio sacrificando qualcuno degli eccessi quotidiani che per noi sono ormai la cosa più naturale (non è esattamente così nel resto del mondo)? Siamo disposti a muoverci sempre di più a piedi o con i mezzi pubblici, alla condivisione (sharing) delle noltre autovetture, magari sacrificando la comodità dell’utilizzo di un’automobile tutta per noi? Siamo disposti a fare a meno del metano nelle nostre abitazioni?

Chiaramente la politica non deve lasciare al cittadino la possibilità di auto-limitarsi, ma piuttosto deve incentivarlo affinché sia spinto a farlo, orientarlo in quella direzione rendendola vantaggiosa, in primis sul piano economico. Ad esempio aumentando gli incentivi per l’installazione di pannelli fotovoltaici nelle abitazioni, obbligando le aziende a porre sui propri tetti pannelli (nelle zone industriali), promuovendo politiche locali per la mobilità intelligente ecc…

Concentriamoci sui consumi e la produzione della sola energia elettrica, ovvero su ciò che va a coprire la parte più consistente del fabbisogno energetico nazionale. Di quanta energia elettrica abbiamo bisogno per far funzionare qualsiasi impianto o mezzo che necessiti di energia elettrica? Quanta ne riusciamo a produrre? (fonte Rapporto ISPRA 2015 su rinnovabili e emissioni CO2)

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Dalla tabella si vede che i consumi e la produzione negli ultimi anni sono diminuiti, un po’ per la flessione del PIL dovuta alla crisi economica, ma principalmente per l’aumento dell’efficienza degli impianti e la riduzione delle perdite della rete.

Quanta energia elettrica produciamo, per tipologia di produzione? Quanta ne produciamo bruciando fonti fossili e quanta da fonti rinnovabili? Diamo un’occhiata a questo grafico (fonte Autority Energia):

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In pratica ogni anno, sul totale di energia prodotta (che oscilla al momento intorno ai 270TWh), diminuisce la quantità di energia elettrica prodotta bruciando fonti non rinnovabili (termoelettrico) e in parallelo aumenta quella prodotta dalle rinnovabili. Nel 2014 la produzione elettrica da fonti rinnovabili costituiva il 42,9% del totale dell’energia elettrica prodotta in Italia, nel 2015 ha superato il 43% (link1, link2). Questo è certamente un indicatore che la strada che il nostro Paese sta seguendo dal punto di vista energetico è quella giusta, come peraltro confermato dal fatto che gli obiettivi posti dall’Europa da raggiungere in termini di utilizzo di rinnovabili entro il 2020 in Italia li abbiamo già raggiunti (17% del fabbisogno energetico coperto da rinnovabili). E questo nonostante -come già ricordato- provvedimenti come lo SbloccaItalia vadano esattamente nella direzione opposta a quella che stiamo seguendo.

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La rimanente parte della produzione nazionale è dovuta a fonti non rinnovabili, ovvero alla combustione di fo ti fossili in centrali termoelettriche. Secondo le statistiche di Terna, la maggior parte delle centrali termoelettriche italiane sono alimentate a gas naturale (59,5% del totale termoelettrico nel 2012), carbone (21,6%) e derivati petroliferi (4,3%).

Sul sito dell’OECD (Dati OCSE) si può fare un confronto tra il valore di energia elettrica prodotti nel tempo da alcuni Stati scelti tra i nostri vicini europei. Chiaramente i dati sono indicativi perché vanno rapportati al fabbisogno energetico nazionale (non è che produco più energia perché sono ganzo, ma perché ho un maggior fabbisogno energetico da soddisfare), che varia in funzione della popolazione e ad altre componenti.

fffff

Ma un’indicazione significativa la otteniamo dal successivo grafico, che illustra l’energia elettrica prodotta dai nostri cugini europei in centrali nucleari:

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In sostanza noi produciamo mediamente 278.833 GWh di energia elettrica ogni anno, di cui zero GWh da energia nucleare, perché, come noto, in Italia a seguito dell’esito del Referendum successivo all’incidente di Cernobyl, non è consentito produrre energia elettrica sfruttando l’energia atomica. E, come già ricordato, di questa, più di 120.000 GWh si ottengono da fonti rinnovabili.

hhhiiii

Sempre secondo il Rapporto ISPRA del 2015 sulle fonti rinnovabili e le emissioni di CO2, in Italia circa il 99% del parco rinnovabile è costituito da impianti fotovoltaici e solo il restante 1% dall’idroelettrico, eolico, geotermico e a biomassa (immagine a destra), ma la maggior parte dell’energia viene prodotta dagli impianti idrici (idroelettrica).

La Spagna produce quanto noi ma 54.264 GWh lo produce nelle centrali nucleari, la Svezia, produce 149.539 GWh di cui 63.597 generati da centrali nucleari, la Germania 596.705 GWh, di cui 92.127 GWh da centrali nucleari e -udite udite- la Francia 548.686 GWh, di cui 403.695 da impianti nucleari. Il dato significativo è che i nostri vicini soddisfano una buona parte del proprio fabbisogno energetico grazie all’energia nucleare prodotta dalle centrali sul loro territorio (poi ci sarebbe anche quel piccolo problemino delle scorie, ma che sarà mai, vero?..). Mi vien da dire, per sdrammatizzare: così son boni tutti! Questi dati dovrebbero farci aprire gli occhi quando siamo posseduti dalla voglia pazza di esternare al mondo la nostra esterofilia.

Parliamo ora della grande ipocrisia di fondo dietro questo referendum. Come abbiamo visto la maggior parte di combustibile utilizzato per la produzione di energia, senza considerare quello che utilizziamo anche per tanti altri scopi, è il gas naturale (considerato molto meno inquinante del petrolio). Chiudere gli impianti entro le 12 miglia (che nella maggior parte dei casi estraggono gas) non comporta in alcun modo una riduzione dei consumi dello stesso gas, ma ci obbliga ad acquistare quel gas che ci serve, a meno che non ci si metta nelle condizioni di poterne fare a meno (ma questa è un’altra storia). Magari acquistarlo dalla medesima compagnia che prima ci pagava le royalties per l’estrazione, che ce lo farà pagare di più considerando che lo va a prelevare da qualche giacimento sulle coste africane (lontano dagli occhi, lontano dal cuore!) o in un qualche Oceano remoto, con i conseguenti costi di trasporto e le royalties mediamente più alte delle nostre. Un’ipocrisia simile al fatto che siamo contro al nucleare, ma che l’80% dell’energia elettrica che acquistiamo dall’Estero la producono le centrali nucleari francesi (e ci arriva dagli elettrodotti di Francia e Svizzera).

Se si volesse davvero andare a scoraggiare lo sfruttamento delle piattaforme sul nostro territorio facendo l’interesse del nostro Paese si potrebbe partire dal rivedere le royalties, ovvero ciò che le multinazionali riconoscono (sulla base di accordi commerciali ben precisi) allo Stato per ogni tot di petrolio o gas che estraggono, che sono tra le più basse del mondo (in mare il 7% per il petrolio, 10% per il gas, in terraferma il 10%, contro addirittura l’80% di Russia e Norvegia).

Una delle argomentazioni a favore del SÌ è che secondo recenti analisi sulla qualità delle acque diffuse dal ISPRA e riprese da Greenpeace, le acque nei pressi delle piattaforme sarebbero più inquinate che lontano dalle stesse. Ottimo, se davvero è così inaspriamo le penali nei confronti delle compagnie che gestiscono gli impianti.

In parole povere adottiamo dei provvedimenti che rendano meno conveniente lo sfruttamento delle nostre coste alle grandi compagnie. Lo SbloccaItalia -tanto per ribadire- dimostra che il Governo sta operando nella direzione opposta, incoraggiando le nuove concessioni e un maggior sfruttamento del nostro territorio per finalità estrattive.

Insomma in conclusione della presente analisi sono ancora più convinto che anche il tema No Fossili da subito sia inattuabile, e che perda di significato anche il messaggio politico che viene dato allo stesso referendum. Trovo invece molto più pragmatica e attuabile la proposta di Legambiente nel “Rapporto Comuni Rinnovabili 2015”, perché si possa “avviare -da subito- uno scenario di investimenti nell’interesse delle imprese, delle famiglie e dell’ambiente”:

  •  Fare del “Green Act” che il Governo ha annunciato il volano per il rilancio degli interventi di riqualificazione energetica del patrimonio edilizio e diffusione delle rinnovabili, dentro una strategia per il Clima nel quale fissare obiettivi e il percorso di riduzione delle emissioni di CO2.
  • Cancellare tutti i sussidi alle fonti fossili e introdurre una carbon tax per muovere investimenti in efficienza energetica e nelle energie pulite da parte delle imprese.
  • Introdurre nuove regole per la valutazione dei progetti da fonti rinnovabili, attraverso efficaci criteri per gli impianti eolici, idroelettrici, geotermici, solari termodinamici, e la semplificazione per gli impianti di piccola taglia.
  • Cancellare le barriere all’autoproduzione e distribuzione di energia prodotta da fonti rinnovabili e in cogenerazione, da parte di Comuni, distretti produttivi, condomini.
  • Promuovere innovazioni nel mercato elettrico che permettano alle rinnovabili di competere, attraverso l’aggregazione di impianti e contratti di lungo termine, ma anche spingendo il revamping degli impianti esistenti.
  • Rivedere il sistema di incentivi per gli interventi di efficienza e le fonti rinnovabili, con l’obiettivo di ridurre la spesa energetica di famiglie e imprese accompagnando la riduzione dei costi delle diverse tecnologie attraverso una regia e una verifica delle politiche e degli strumenti.
  • Investire nelle reti energetiche, per accompagnare la produzione da energia pulita, attraverso interventi che eliminino i colli di bottiglia che con la modernizzazione delle reti di distribuzione.

Interessante anche la posizione di Legambiente in merito allo stesso referendum.

Ah. Alla fine, non vi ho detto cosa voterò.


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